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Anything Anywhere All at Once: genio o stupidità?
Eccomi qui! A distanza di quattro anni, da Swiss Army Man, mi ritrovo nuovamente a scrivere sui Daniels (Daniel Kwan e Daniel Scheinert - coppia di registi e sceneggiatori statunitensi), su Anything Anywhere All at Once (il loro secondo lungometraggio) e soprattutto sul loro stile e modo di fare cinema. A distanza di quattro anni mi ritrovo a scrivere nella stessa scomoda posizione morale, in cui quasi mi sento di giustificare, interpretare e spiegare l'arte astratta e concettuale del duo di autori tanto folli quanto esuberanti nell'approcciarsi alla produzione cinematografica come ad una partita a RisiKo, nella quale per essere coerenti alla loro ipotetica strategia di gioco, posizionano due gruppi di carri armati - che per comodità possiamo semplicemente chiamare Swiss Army Man e Anything Anywhere All at Once - sul labile confine che il giudizio della critica (o presunta tale) ha diviso in due distinte e indipendenti nazioni: Genio e Stupidità.
Il cinema dei Daniels è un viaggio tra generi che raggiunge la destinazione chiamata "cinema dell'assurdo" in modo divertente e caotico. Anything Anywhere All at Once, come il film d'esordio, divide la critica. Lo spettatore deve approcciarsi con una visione passiva poiché quello che viene messo in scena è puro e stupido intrattenimento oppure con visione attenta ed attiva perché ogni minimo dettaglio è un espediente geniale che va colto per la comprensione di un significato finale più ampio e profondo?
Se Swiss Army Man vuole essere un'assurda celebrazione della vita, ma con un finale enigmatico, interpretabile solo attraverso l'espressa ammissione dei Daniels, ovvero che si sono divertiti a far scorreggiare un cadavere "interpretato" da un altro Daniel (Radclife), Anything Anywhere All at Once, al contrario, conduce lo spettatore ad un finale rivelatore e ricco di molteplici significati in modo scanzonato e attraverso un concetto che grazie ai Marvel Studios, ovvero gli ultimi film di Spider-man e Doctor Strange, oggi non ne sappiamo più così spaventosamente poco. Il multiverso per i Daniels è metafora, lo "Sliding Doors" dei personaggi protagonisti: ogni singola scelta che essi non hanno fatto nel corso della loro vita è scelta che è stata fatta da loro stessi in un universo parallelo e viceversa, creando in questo modo un numero indeterminabile di mondi. Se solo fossi andato al liceo, se solo avessi studiato cinema e non economia, se solo avessi terminato gli studi universitari o avessi continuato a suonare il pianoforte invece che giocare a calcio. Se potessi tornare indietro rifarei le stesse scelte? Lo stesso quesito si pone Evelyn che se non avesse sposato Waymond oggi sarebbe la versione femminile di Bruce Lee, maestro di Kung fu e star cinematografica e non la proprietaria di una lavanderia a gettoni oggetto dell'attenzione dell'agenzia delle entrate americana. Le incomprensioni con il fisco e il rischio di trasformare il sogno americano di una famiglia immigrata in un incubo, diventano ben presto l'ultimo dei problemi per Evelyn che proprio mentre è al cospetto della severa e temibile impiegata dell'ufficio delle entrate, entra in qualche modo in contatto con la versione di suo marito proveniente da un universo parallelo che la istruisce sul multiverso e su come può salvarlo, perché seppur ancora inconsapevolmente, è in grado di spostarsi e viaggiare al suo interno entrando in contatto con le varie versioni di se stessa.
Non vi dico chi minaccia il multiverso, come Evelyn entri in contatto con le versioni di se stessa degli universi paralleli o come questi siano caratterizzati perché vorrei lasciare libera scelta allo spettatore, posto davanti al bivio, su quale strada preferisca intraprendere nel giudizio personale tra genio o stupidità, inconsapevole che entrambe sono solo due strade diverse dello stesso percorso, il cinema dell'assurdo, perché entrambe conducono ad un finale rivelatore. Vorrei invece sottolineare l'importanza del cast composto tra gli altri da Ke Huy Quan (I Goonies, Indiana Jones e il tempio maledetto) il prodigio del cinema degli anni '80 è Waymond, Jamie Lee Curtis (davvero vi devo citare qualche film in cui ha recitato?) la sciatta e sorprendente impiegata dell'ufficio delle entrate e Michelle Yeoh nel ruolo di Evelyn, una donna di mezza età con problemi professionali (già citati) e familiari: vive nell'universo in cui il marito vuole chiederli il divorzio, la figlia Jobu (Stephanie Hsu) ha fatto coming out, ovvero cerca di farlo per avere la sua approvazione e soprattutto quella del radicale nonno Gong Gong che vive a loro carico.
Se nel loro film d'esordio è proprio il finale quel punto debole, seme di critiche e perplessità, in Anything Anywhere All at Once invece è il troppo sci-fi che storpia, al netto di entusiasmanti scene di lotta e spettacolari effetti visivi, confesso di aver fatto fatica a prestare attenzione fino alla fine, nonostante il buon ritmo. Al contrario ho apprezzato tantissimo il concetto di multiverso utilizzato in maniera contestuale per trattare diversi temi quali la depressione, il riprendere in mano le redini della propria vita per mettersi in sella e cavalcare la propria esistenza nel momento più difficile, il superamento delle suddette difficoltà, l'utopia del sogno americano, il relazionarsi con il diverso e con le nuove generazioni. Scelta coraggiosa dei Daniels utilizzare in tal modo il concetto di multiverso, in un momento storico particolare in cui lo spettatore è più istruito sul tema, ma soprattutto in un film che non rientra nel genere cinecomic (a mio parere attualmente il più appropriato), essendo un progetto nato nel 2016 durante la tournée per la promozione del loro primo film e che oggi, ironia della sorte, è prodotto assieme ai fratelli Russo di Endgame. Se non avessi avuto la passione per il cinema avrei considerato il nuovo film del duo Daniel Kwan e Daniel Scheinert un'assurda stupidità, magari non avrei scritto questa recensione in un universo parallelo e chissà come avrei invece impiegato questo tempo libero dal lavoro, se mai ne avessi uno di lavoro, ma per fortuna non è così e per una volta nella vita posso dire di aver fatto una scelta giusta. Se potessi tornare indietro, mi appassionerei nuovamente al cinema? Assolutamente si.
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