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Dubbi e perplessità su Indiana Jones e il Quadrante del destino
Il Tuk Tuk è un pittoresco taxi a tre ruote prevalentemente utilizzato nelle città del sud est-asiatico, in cui è persino considerato un simbolo turistico. Ho visto tale veicolo per la prima volta, in tv, nel reality show Pechino Express, in cui veniva utilizzato come penalità per rallentare nelle dinamiche di gioco la coppia di concorrenti di turno a causa della sua limitata potenza e velocità, ma sarà forse che quelli di Tangeri, in Marocco, hanno il motore truccato come la Vespa di cui cantava Cesare Cremonini, alla guida di Indiana Jones si trasforma in una macchina da corsa. Lui che di professione è un brillante archeologo e stimato docente universitario, come molti altri eroi cinematografici che hanno cavalcato l'onda del genere d'azione o avventura tra gli anni '80 e '90, è capace di imprese impossibili: dalla scoperta di tesori perduti e il ritrovamento di manufatti leggendari alle sopravvivenza da maledizioni mistiche e ancestrali, dall'ostacolare i pani nazisti di conquista e ricevere l'autografo da Hitler in persona all'incontro ravvicinato del terzo tipo, dalle acrobazie improbabili con l'inseparabile frusta alla fobia dei serpenti. Quindi non sono certo le sequenze del Gran Premio di Tangeri in Tuk Tuk da corsa (così come l'inseguimento tra una moto e Indy a cavallo) a farmi storcere il naso in quest'ultimo capitolo della saga di Indiana Jones - sotto questo punto di vista ormai ho imparato a scendere a compromessi con l'esigenza di spettacolarizzazione a favore di un godibile, seppur surreale, intrattenimento - ma il finale (del quale non faro assolutamente spoiler), ovvero la piega che il film prende nel finale capace di rovinare le ottime ed interessanti premesse messe in piedi ed in scena sul "Quandrante del Destino", un calcolatore creato da Archimede oltre 2000 anni fa, ispirato al meccanismo di Antikythera.
Come ogni classico film d'avventura che si rispetti anche Indiana Jones e il quadrante del destino parte a bomba (è proprio il caso di dirlo) con un prologo action pazzesco, nel quale fanno subito la loro apparizione Toby Jones, Mads Mikkelsen ed Harrison Ford ringiovaniti dalla computer grafica. Indy come al solito è in ostaggio ed ha il volto coperto da un sacco, il quadrante del destino inizia a creare curiosità allo spettatore, gli antagonisti sono nuovamente i nazisti (come in L'ultima crociata) e la maggior parte dell'azione si svolge su un treno in corsa che passa in tunnel stretti e su ponti pericolanti così come da sempre affascina Steven Spielberg che per la prima volta però non dirige un capitolo della saga a favore di James Mangold, esperto ormai di remake e sequel dopo aver diretto nel 2007 il rifacimento di Quel treno per Yuma e nel 2019 Le Mans '66, nel mentre il degno congedo di Wolverine in Logan, si assume la responsabilità di dirigere il quinto film sull'archeologo più famoso del cinema. La domanda sorge quasi spontanea, sembrava, dopo aver terminato a fatica la missione in Il regno del teschio di cristallo, che Indy avesse appeso frusta e cappello al chiodo ritirandosi sereno a vita privata in prossimità anche del pensionamento, allora un ulteriore film su Indiana Jones era proprio necessario? Cosa può aggiungere ancora ad una saga iniziata nel 1981 e apparentemente chiusa (ripeto a fatica) nel 2008?
Facile pensare che sia un film realizzato per fare soldi che esce in sala proprio nell'estate dei grandi blockbuster e dei nuovi capitoli di longevi franchise cinematografici, nel giro di poche settimane infatti si sono accavallati tutti insieme nei multisala titoli quali ad esempio il settimo film di mission impossible, il decimo di Fast and Furious, il settimo di Trasformers, il quinto di Insidious e nuovi cinecomic Marvel e DC che vanno ad arricchire il loro già complesso universo cinematografico a tema. In realtà Il quadrante del destino rientra tra quelle idee e progetti proposti e mai realizzati negli ultimi quarant'anni dal produttore esecutivo George Lucas che tra le mani di James Mangold vede finalmente la luce.
Il regista newyorkese sta vivendo una fase particolare della sua carriera, in cui si ritrova dietro la macchina da presa di remake o sequel scomodi e non facili da dirigere, devo dire però cavandosela alla grande. Il suo operato non si limita solo alla mera esecuzione, certo le citazioni e i riferimenti ai film precedenti non mancano e questo rende felici i fan, ma si contraddistingue per il rispetto che riserva verso i personaggi e la loro uscita di scena (come ho potuto constatare in Logan e Le Mans '66), nonché la capacita di saper mantenere una certa fedeltà in termini di caratterizzazione, storia e origini di tali personaggi.
Il film di Mangold non aggiunge nulla al personaggio, interpretato ancora una volta degnamente da Harrison Ford, nonché alla sua storia ormai giunta al capolinea. Il professor Jones è ormai ufficialmente in pensione, ma non fa neanche in tempo a ringraziare i colleghi e tagliare la torta che si ritrova a far da chioccia alla sua figlioccia, Helena Shaw, ovvero la figlia del suo caro amico Basil Shaw (Toby Jones) che dopo 18 anni si ripresenta chiedendoli aiuto poiché intenzionata, dopo la morte del padre, a trovare il Quadrante di Archimede. Spiata, ricercata ed inseguita dagli scagnozzi dello scienziato tedesco Jurgen Voller interpretato, come sempre, magnificamente da Mads Mikkelsen.
Come in L'ultima crociata, Indiana Jones si ritrova ad ostacolare i piani di dominio dei nazisti, questa volta però ricoprendo durante l'avventura quel ruolo di figura paterna che è stato di Sean Connery, nei confronti della figlioccia soprannominata "Vombato" ed interpretata superbamente da Phoebe Waller-Bridge. Il personaggio dell'autrice e protagonista della pluripremiata serie tv Fleabag, per peso narrativo, caratterizzazione e interpretazione non passa assolutamente in secondo piano, anzi si prende la scena, chissà quanto volutamente, ai danni del co-protagonista più anziano, in quanto per far coincidere l'età anagrafica di Harrison Ford con quella del suo personaggio e la linea temporale narrativa dei film precedenti, la storia di quest'ultimo capitolo della saga è ambientata nel 1969. In una New York di fine anni '60 atipica, quasi senza tempo se non fosse per la parata organizzata a Manhattan per celebrare il ritorno degli astronauti dell'Apollo 11, i primi a compiere un piccolo passo sulla luna, ma un grande passo per l'umanità. Unico riferimento storico che però non rende l'ambientazione molto diversa dai tempi contemporanei nei quali il personaggio emancipato, indipendente ed intraprendente di Helen, scritto ad hoc per la sua interprete, seppur in modo anacronistico avrebbe più senso. La ricchezza del cast la si nota già dalle prime scene - tra gli altri un anonimo Antonio Banderas, uno stereotipato Boyd Holbrook e il ritorno nel ruolo di Sallah, dopo I predatori dell'arca perduta e L'ultima crociata di John Rhys-Davis e nel ruolo di Marion, dopo I predatori dell'arca perduta e Il regno del teschio di cristallo di Karen Allen - ma Il quadrante del destino è a mio parere uno di quei pochi film in cui ben sfaccettati e approfonditi sono i personaggi secondari, nonché il ben motivato (ma soprattutto interpretato) villain.
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